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Federico Pietrella

Da quando lo conosco Federico Pietrella dipinge le stesse cose – i viali alberati, i marciapiedi, i passanti, le persone che attraversano la strada, o in attesa di farlo, i ciclisti, gli incroci stradali, il traffico, le auto che sfrecciano e quelle parcheggiate ai bordi delle strade, le piazze in un giorno qualsiasi. Pietrella dipinge anche bellissimi ritratti (la figlia Theodora e la sua compagna, Athéna) e immagini che rinviano ad una tranquilla vita familiare: le gite domenicali, la campagna, le spiagge, gruppi di bagnanti, volti femminili, interni domestici e piccole nature morte.  A pensarci bene, poiché tutte queste cose appartengono al novero dei motivi, dei temi classici della pittura, dei generi a cui è riconducibile il lavoro di tutti quelli che dipingono quadri figurativi – che si tratti di Peter Doig o di un pittore della domenica non fa molta differenza. In fondo non trafficano, questi due, nello stesso vischioso territorio? -, non c’è nulla di particolarmente interessante nel raccontare che a un pittore piace dipingere il volto della sua compagna, un angolo della propria casa o alcune figure immerse nel paesaggio. Certo, c’è il fatto che Pietrella tutte queste cose, negli anni, le ha dipinte usando un timbro datario al posto del pennello (più che al posto del pennello sarebbe meglio dire “come un pennello”: l’abilità con cui a volte riesce a riprodurre la fluidità delle pennellate utilizzando  un arnese che lo costringe a prendere in considerazione porzioni minime di spazio, è sbalorditiva). In ogni caso, questo uso del timbro datario è ciò che lo ha reso diverso da molti (da molti di quelli che, a cavallo tra anni Novanta e Duemila, hanno inteso la figurazione come una traduzione mimetica dell’immagine fotografica, una forma di fotorealismo di derivazione richteriana, ma esangue, svuotata concettualmente),  in un certo senso meno invischiato nelle secche del medium, e apparentemente più simile – anche se più incostante, asistematico – ad artisti che, come On Kawara e Roman Opalka, hanno raccontato, in forma di progressione inesorabile, lo scorrere del tempo. Mi chiedo spesso quanto sia difficile per un pittore trovare un giusto compromesso, oggi che l’arte è tutta professione, muscoli, e progetti, interventi site-specific…, tra la dimensione progettuale della mostra e la pratica quotidiana, antiprogettuale, del dipingere. Come ripartire, suddividere, ad esempio, il lavoro di un artista come Pietrella? E come restituire la gioia (e la noia), il piacere di dipingere, di dipingere e basta, di dipingere ciò che si vuole – un volto, gli oggetti sul comodino,  il paesaggio che ha accompagnato una passeggiata in campagna? La felicità non fa racconto era il titolo, bellissimo, di una mostra di Luca Bertolo di qualche anno fa. Che cosa, invece, fa racconto nel lavoro di Pietrella? Si tratta soltanto di prendere un segmento temporale all’interno di quell’indifferenziato racconto del tempo che da anni va costruendo? Non sarebbe fantastico poter intitolare una mostra di suoi quadri, in modo semplice e un po’ maldestro, “Quadri recenti”, o, ancor più semplicemente, accostare alle parole “opere”, “dipinti”, la data di inizio e fine lavori? Il punto è che in questa mostra, che si chiama, appunto, “Quadri d’interno”, che gioca con la parola quadro (quadro: una parola pericolosa per un pittore di oggi, troppo compromessa con il dilettantismo, la pittura da salotto, da mercatino, con la pittura da mettere sopra il divano), che si svolge in uno spazio, la sede di SmART, che evoca un interno domestico (da un certo punto di vista un luogo perfetto per i quadri Pietrella, una palazzina di inizio Novecento che si trova in un elegante quartiere di Roma Nord), che allude alla pittura di genere (ci sono alcuni paesaggi e una serie di ritratti: descrivono sempre la stessa donna), a un flebile racconto (la donna appare in più luoghi: in un bar berlinese / davanti ad uno scrittoio mentre guarda verso lo spettatore / seduta, con uno smart-phone in mano / di spalle, mentre si allontana su un sentiero innevato), che vive di rapporti tra dentro e fuori, tra esterno e interno (così gli alberi, le piante del giardino che si intravedono dalle finestre aperte è come se dialogassero con i paesaggi che l’artista ha dipinto); in questa mostra – dicevo – di lavori con i timbri ce ne sono soltanto due. Gli altri sono proprio quadri, e Pietrella ha usato il pennello al posto del timbro. Lo so già cosa potrebbe dire chi non lo conosce da molti anni, chi non lo conosce bene: che “Pietrella cambia”, che reindirizza il suo lavoro verso la pittura proprio adesso che la pittura “va di moda” (la pittura non va realmente di moda, certamente non quella di figura, va di moda una specie di astrazione monocromatica, di fondi, tutta uguale, ad uso e consumo del gusto medio dei curatori, come ha scritto in un meraviglioso articolo Jerry Saltz), tutte cose che mettono in campo questioni d’identità. Ma che cos’è poi l’identità per un pittore, oggi, se il più grande pittore vivente, Gerhard Richter, non ha fatto altro che defilarsi dai dettami dello stile e della poetica? Oppure: forse lo stile, la presenza di un autore che si fa riconoscere, è ciò che pretendiamo, inevitabilmente, da un pittore? Sto esagerando, certo – Pietrella non smetterà mai completamente di fare i dipinti con i timbri (già in passato ha fatto molto altro: ha realizzato piccole sculture usando carta, nastro adesivo e colla; grandi interventi forando pareti, piantando chiodi e bucando diapositive; ha dipinto con un materiale insolito come il silicone) –  ma mi piace pensare  a cosa potrebbe realmente significare per lui non essere più semplicemente quello che timbra, sottrarsi al placido percorso di pittore mid-career che ha sempre fatto quella cosa, dall’inizio. D’altro canto, a guardar bene, i quadri con i timbri e i quadri con i pennelli sono molto simili. Non solo perché il ritmo, il fraseggio secco, calligrafico, delle pennellate è affine alla trama pulviscolare dei timbri  (e insieme, le pennellate e le timbrate di Pietrella, mi sembra facciano ridiventare nuova quella cosa, un po’ vecchia, che i professori di storia dell’arte dicevano quando spiegavano come si debba guardare un dipinto: prima da lontano, poi da vicino, poi nuovamente da lontano…). Se c’è una cosa che rende subito riconoscibile un quadro di Pietrella, con i timbri o con il pennello, è il modo in cui l’artista organizza l’immagine, stabilisce distanze, prossimità, passaggi tonali, corrispondenze, i rapporti tra i piani e le zone del dipinto, ecc: un modo in fondo molto classico, composto, elegante. Ho sempre pensato che ci sia una radice ottocentesca nel lavoro di Pietrella, come una sottotraccia che passa attraverso i suoi dipinti. Voglio dire: guardando quadri come Macchia Tonda e Gleisdreieck non vengono in mente, per la profondità di campo e per come questa profondità sta in rapporto dialettico con le cose in primo piano, Signorini, o Cabianca o Segantini? E la quiete domestica descritta in Capalbio non ha a che fare con quella dei dipinti di Silvestro Lega? Invece Monkey Bar – un campo lungo, una visione larga su un interno dove gli oggetti stanno inverosimilmente in ordine, in equilibrio, perfino le impronte e le incrinature dei cuscini – non fa pensare a una foto di Jeff Wall, l’artista del nostro tempo che, guarda caso, ha riflettuto di più sulla pittura dell’Ottocento? Non vorrei certo catapultarlo in un’altra epoca (e non è certo una brutta epoca: la pittura dell’Ottocento, con le sue modalità narrative, i suoi tagli precinematografici, il suo afflato ideologico, la stiamo prepotentemente riscoprendo proprio in questi anni), ma se c’è una cosa emblematica nel lavoro di Pietrella non è in fondo la matrice divisionista, segantiniana? Un pittore della domenica, un uomo mite che per anni ha dipinto la sua famiglia quando fuori c’era brutto tempo; la villa di Max Liebermann nei dintorni di Berlino, il luogo incantato in cui il pittore ha trascorso gli ultimi anni della sua vita, dipinto gli ultimi quadri, per lo più ritratti e scene di genere; le frequenti visite di Federico, da studente, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna; l’eleganza borghese di alcuni quartieri di Roma Nord, con le belle case e i larghi viali alberati; via Scipione l’Emiliano, una via che a Roma non esiste, solo l’indirizzo in cui abita la famiglia di un film di Ettore Scola; il lago di Martignano, le sue acque placide e le mucche che pascolano sui prati a ridosso del lago; un viaggio di una giornata, a Francoforte, che io e Federico abbiamo fatto alcuni anni fa, intrapreso con l’intenzione di andare a prendere un caffè in una città straniera; Il conformista di Alberto Moravia – un romanzo importante per Federico -, il risvolto oscuro, l’inquietudine e  il baratro del conformismo: sono alcune immagini, stralci, brandelli di discorsi che ci hanno accompagnato nei mesi che precedevano la mostra. La normalità, non si sa bene cosa sia, è la cosa che da sempre Pietrella prova a raccontare.

Davide Ferri

Opere

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