Il lavoro di Alessandro Calizza negli anni recenti si è focalizzato su temi di denuncia, utilizzando sovente un repertorio iconografico che evoca il mondo classico, variandone tono e significato con interventi caratterizzati da una personalissima cifra ironica.
La raccolta del Museo dell’Arte Classica è stata fonte di ispirazione pressoché esclusiva di alcuni suoi lavori pittorici recenti, una serie di opere il cui progetto si sviluppa su più registri: le opere d’arte antica vengono mostrate in disfacimento, o con danni e ferite provocate dall’uomo e da agenti esterni dovute anche ai cambiamenti climatici; l’ineluttabilità del destino di alcune di esse le consegna a una sorta di condizione rassegnata che contrasta con la loro origine intrisa di epica e sacralità. Il contrasto con la vivacità dei colori sottolinea la superficialità con la quale si tende ad assistere a fenomeni sempre più gravi di generale declino, ma, nel contempo, evita di indugiare nel pessimismo e lancia un segnale d’allarme, un’esortazione a non cedere passivamente alla rinuncia.
Calizza attinge all’antico per raccontare un aspetto endemico del nostro tempo, quella paura che fagocita e rende insensibili. All’artista interessa rappresentare il momento nel quale la negligenza si trasforma in ingiustizia e la statua è lì, nella sua monumentalità eterna a mostrare le nuove ferite, accennando un monito che il più delle volte non viene raccolto, il mondo che passa accanto, non cogliendo il segnale, finisce per subire le conseguenze senza nemmeno accorgersene, come nel paradosso della rana di Noam Chomsky. Ma, nella volontà inflessibile dell’artista, ricusare ogni coinvolgimento diventa più difficile quando l’irruzione chiassosa del colore, sia esso campitura o guizzo appena accennato, costringe inevitabilmente all’attenzione.
L’apparire di forme mostruose, ingentilite da un colore fiabesco, quasi disneyano, trae volutamente in inganno, l’uso impudente del pennarello o dello spray non sono che richiami intenzionali al superamento delle apparenze. La frode si nasconde nella familiarità del colore violetto di quello che sembra un innocuo mostriciattolo, la presenza irriverente di una scritta d’amore accanto a una Centauromachia smaschera la necessità insana dell’essere umano di trovare un nemico, con la stessa ansia febbrile con la quale cerca l’anima gemella della quale prendersi cura. Il potere, ovunque, nel suo manifestarsi, diffonde una malattia virale che non risparmia neanche gli ambiti più strutturati, persino quelli istituzionali, preposti ad arricchire l’animo umano o a combattere abusi e sopraffazioni.
Questa è la denuncia di Calizza, unita alla volontà di indurre il visitatore ad abbracciare passato e presente con occhi disincantati e ironici, con uno sguardo consapevole, mai incline alla disillusione. Come la sottolineatura di un evidenziatore colorato, l’artista distoglie dall’abulia di una visione acritica e passiva, punta a far luce sulle contraddizioni del nostro tempo, esortando al cambiamento, motivo vitale per tutti.
Maria Arcidiacono
Opere
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