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Fabrizio Cardillo

L’immaginazione corre subito al desiderio sessuale, alla tensione erotica, al feticismo per i dettagli femminili.

Il soggetto privilegiato di Fabrizio Cardillo riguarda Lei, la DONNA che anima i desideri, virtuali e reali, di generazioni e classi sociali anche molto lontane. Impossibile non andare con la mente alle pubblicità che ci circondano, ai ritratti fotografici dove si richiama l’ambiguità sessuale, dove si ammicca verso l’osservatore mai privilegiato, dove si alimenta il desiderio di una perfezione sublime del corpo. Altrettanto impossibile non catapultarci tra perizoma, scarpe dai tacchi vertiginosi, reggiseni sottili, jeans a vita bassa con slip che si intravedono sotto la schiena. Siamo accerchiati da immagini che diventano immaginario, da pezzi reali che si tramutano nel sogno di una soddisfazione sfuggente. 

Eccoci, titubanti come non mai visto l’eccesso di informazione che deforma il nostro rapporto col desiderio, rendendolo imprendibile e troppo elastico. La bulimia visuale crea un intoppo digestivo nella nostra libidine, sovraccarica la mente con la miriade di falsi ammiccamenti. Il punto di massima involuzione mediatico lo abbiamo vissuto col recente servizio di Vogue su David Beckham e sua moglie Victoria Adams: pose da feticismo e dettagli sadomaso per un risultato che suona volgarmente patetico, così finto da rendere antierotici tutti gli stilemi di una “divisa” (leather, tacchi, legacci, calze…) invece intramontabile. Conserviamo, di contro, quel mondo magico di Helmut Newton dove ogni ritratto impone una strepitosa ed arrapante virago.

O ancora i disegni a colori di Sorayama, maestro di un feticismo tra travestimenti e mondo bionico. E poi le foto sublimi di Richard Kern, voyeur scatenato che accende il fuoco delle giovani newyorkesi ad altro tasso carnale.

Fino ai capolavori ad aerografo di Trevor Brown, alle fotografie in bianconero di Trevor Watson, a quelle dai toni più caldi e altrettanto fetish di Gilles Berquet.

Cardillo parte dove inizia il dilemma tra realtà e manipolazione, ribaltando la centralità realistica del comune immaginario erotico. La sua base è un realismo fotografico di forte attrattiva feticistica, riempito da giovani donne che funzionano nel ruolo a loro predisposto. Poi, però, ne veste la riconoscibilità ovvia con un DISTURBO DIGITALE dai connotati pittorici. Rende sfuggenti le femmine in posa, ipotizza un dinamismo motorio che racchiude il contenuto filmico della sua visione. La postura moltiplica il singolo gesto del toccarsi un seno o le spalline di una canottiera. Il primo piano su un volto mostra la deformazione delle dita in bocca. Alcuni corpi appaiono radicalmente modificati nel busto, evocando confini scientifici tra l’assurdo e il plausibile. La stessa figura talvolta si sdoppia in una formula gemellare dello sguardo elettronico. La vita si assottiglia, gli arti si allungano o moltiplicano, i gesti minimi assumono il ritmo ascendente del movimento. Torna la lezione recente di Giuseppe Tubi che rievoca il Futurismo nei suoi virus digitali. Le icone elettroniche si aprono alla simulazione di un tempo mobile dentro l’inquadratura. Scopri quel che l’immaginario pubblicitario recide in partenza, entrando negli spazi di azioni intime che adottano la precisione dei tagli pittorici e della plausibilità filmica. L’icona femminile stuzzica il sommerso della memoria collettiva, riportandoci agli aspetti ambigui del desiderio, alle nostre zone del dubbio profondo, alle strutture mentali che governano il feticismo. 

Le ambientazioni attorno ai corpi scolorano progressivamente, si diradano in azzurri celestiali e bianchi artici. Talvolta l’autore mostra ancora un orizzonte paesaggistico, altre volte la monocromia astratta invade l’intero campo ottico. Importante è il costante isolamento della figura nel FETICISMO del gesto elementare. Si amplia così la nostra consapevolezza di un corpo che scelto nuove soluzioni, prospettive inconsuete, dinamismi ben diversi dalla piattezza delle formule commerciali. Le femmine di Cardillo (a parte una figura maschile che, forse, potrebbe mimetizzarsi tra i ritratti come un virus anomalo ma necessario) ci invitano ad osservare la loro presenza davanti allo specchio. E noi subito ci trasformiamo nei partner del desiderio mentale, nel catalizzatore che rende la donna un magnete perenne e inattaccabile.

DIGITAL FETISH come il corpo di donna tra lo specchio reale e la liquida manipolazione elettronica. Come il dettaglio che torna astratto, ambiguamente scultoreo. Come il gesto del ritrovare la geografia epidermica, le altitudini delle forme, l’architettura aggiunta degli accessori erotici. La bellezza femminile si tramuta in una riflessione sul suo status universale, sulla progressiva astrazione della figura. Un’avventura nelle geografie del mistero irrisolto, ovvero, nel corpo che racconta uno spirito, una condizione interiore (di chi guarda e di chi è guardato).

La donna si trasforma in “altro” e ripulisce la nostra percezione emotiva. Muta per ribadire se stessa rispetto alla cognizione maschile del mondo. Ed ecco che la carne, opera dopo opera, si assottiglia, dimagrisce e perde materia fino alla pura volumetria scultorea. Fino al dittico dove il corpo in verticale segue una nettezza in dissolvenza, mentre la forma in orizzontale catalizza lo sguardo finora predisposto alle sole certezze. Dopo l’eccesso di realismo pubblicitario è il corpo stesso a ribellarsi, a tornare verso le origini cellulari, verso il disorientamento fetale, verso le omogenee plasticità embrionali.

Il rispetto per la femminilità impone un nuovo sguardo.

L’astrazione impone la ricoperta del VERO CORPO.

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